Sempre più aziende chiedono ai propri lavoratori di “indossare” dispositivi automatici per rendere più efficienti e sicuri i processi lavorativi: si chiamano wearable device. I vantaggi, soprattutto per la sicurezza, sono innegabili perché, per esempio, possono permettere di capire esattamente quante persone devono essere evacuate in un determinato sito industriale dove è accaduto un incidente. Di solito sono dispositivi che il dipendente può togliere al termine del suo orario di lavoro.
Recentemente, negli Stati Uniti ma anche in molti paesi del Nord Europa, questi dispositivi sono stati sostituiti da microchip da impiantare sottopelle. In questo caso, l’iniezione del microchip avviene solo su base volontaria, considerata l’invasività di un’operazione del genere per la vita privata delle persone. Tuttavia, l’adesione all’iniziativa, in molte aziende americane, ha raggiunto il 60% dei dipendenti e sembra che molti di essi siano soddisfatti, perché hanno ottenuto benefici anche nella vita privata. Infatti, il microchip può collegarsi anche a dispositivi che regolano l’apertura della propria auto o che riproducono la propria musica preferita.
Di solito la tecnologia che viene utilizzata è molto semplice e non è in grado di rilevare altro che la nostra presenza in un determinato punto del mondo e richiede che ci sia un apposito ricevitore che la tratti.
Tuttavia, non mancano i casi in cui i dati trattati sono molti di più e che siano veicolati, per esempio, tramite lo smartphone. In questo caso, la questione diventa più delicata e viene affrontata nell’ambito di una nuova disciplina definita edge computing o fog (nebbia) computing che studia la parcellizzazione dei punti di elaborazione e la possibilità di inserirli in sistemi che garantiscano una adeguata protezione dei dati che trattano.
Quindi, non solo una questione di pelle…