A prova di smartphone

L’acquisizione degli SMS, dei messaggi Whatsapp e delle email da parte della Polizia Giudiziaria su autorizzazione del magistrato è consentita ed il loro contenuto può costituire elemento di prova in un giudizio penale.

Lo ha stabilito la V Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1822 dello scorso 16 gennaio.

Il difensore dell’imputata aveva impugnato, davanti alla Suprema Corte, l’ordinanza che confermava il decreto di sequestro che il Pubblico Ministero aveva disposto per il contenuto del suo smartphone. I motivi di impugnazione erano, sinteticamente, i seguenti:
• non potevano essere acquisiti i messaggi (SMS, Whatsapp e email) perché, venendo in rilievo un’attività di intercettazione di flussi di comunicazioni telematiche, bisognava applicare l’art. 266 del codice di procedura penale;
• l’acquisizione dei messaggi avrebbe violato il comma 6 dell’art. 103 del codice di procedura penale che stabilisce il divieto di sequestro della corrispondenza tra indagato e difensore.

La sentenza della Cassazione stabilisce smonta queste due tesi affermando che i messaggi presenti sullo smartphone:
• hanno natura di documenti (informatici) e non costituiscono un flusso di comunicazioni in corso la cui intercettazione, e non già acquisizione, è disciplinata dall’art. 266 c.p.p.;
• non costituiscono corrispondenza che presuppone l’affidamento del plico ad un terzo (servizio postale) per il successivo recapito al destinatario.

Una sentenza a prova di smartphone!

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