Orizzonti diversi

La tutela dei dati personali è sempre da conciliare con l’interesse pubblico. Il vecchio Codice privacy, all’art. 19, citava testualmente “Il trattamento da parte di un soggetto pubblico riguardante dati diversi da quelli sensibili e giudiziari è consentito [..] anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente” ed il GDPR, all’art. 6, dice “Il trattamento è lecito solo se e nella misura in cui ricorre almeno una delle seguenti condizioni: a) [..];b) [..];c) [..]; d) [..]; e) il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento; f) [..]”.

Questo significa che la Pubblica Amministrazione poteva, e può, trattare i dati personali comuni, senza il consenso dell’interessato e senza che ci sia una specifica norma che lo consenta, purché

  • la finalità da perseguire sia coerente con i fini istituzionali (questi certamente stabiliti da una norma);
  • il trattamento rispetti i principi stabiliti dal Codice privacy (prima) e dal GDPR (oggi); in particolare, sia rispettato il principio di minimizzazione ovvero il principio che prevede l’utilizzo dei dati indispensabili alle finalità e per il tempo strettamente necessario a conseguirle.

Appare strano, quindi, che alcuni professionisti del foro affianchino i cittadini nelle aule di giustizia per rivendicare il “diritto alla riservatezza” dei dati personali nei confronti di soggetti pubblici che svolgono le loro funzioni istituzionali. Ed è ancora più strano che ci siano tribunali che danno, almeno temporaneamente, ragione a questi cittadini.

Nei giorni scorsi, infatti, la Cassazione è dovuta intervenire per cassare una sentenza del Tribunale di Napoli che aveva accolto il ricorso di un contribuente che chiedeva l’inutilizzabilità dei dati che l’Amministrazione Finanziaria aveva impiegato per calcolare il suo vero reddito e, quindi, per chiedergli le imposte corrispondenti. Il contribuente non diceva che i dati erano sbagliati, con conseguente errore di calcolo del reddito ma affermava che l’Amministrazione Finanziaria non avrebbe potuto trattarli e, quindi, l’accertamento non avrebbe dovuto vedere la luce.

La Cassazione, ricordando che i dati riguardanti reddito e patrimonio rientrano tra quelli comuni (quindi non sensibili né giudiziari), ha dato ragione all’Amministrazione Finanziaria chiudendo la vicenda senza nemmeno rimandare la questione al Tribunale.

Un piccolo (grande) esempio di orizzonti diversi tra interesse pubblico e diritto dell’individuo.

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