Martedì scorso è caduto il ponte Morandi che sovrastava la città di Genova e ieri si sono celebrati i funerali solenni di alcune delle vittime di uno degli eventi più tragici mai accaduti sulla rete stradale italiana.
Quali sono le cause? C’erano stati segnali? Si poteva evitare? Nessuno lo sa, per ora. Probabilmente, sarà difficile capirlo nei prossimi giorni, nei prossimi mesi, nei prossimi anni.
Sembra che i controlli venissero eseguiti essenzialmente in tre modi:
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attraverso un monitoraggio visivo; l’operatore controllava “a vista” l’integrità dei componenti del ponte con particolare attenzione agli stralli ovvero i “tiranti” che reggevano il ponte;
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attraverso un monitoraggio meccanico; l’operatore scalpellava le strutture per saggiare la tenuta del calcestruzzo;
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attraverso controlli riflettometrici per rilevare eventuali lesioni delle parti in acciaio sfruttando la caratteristica di condurre corrente di questa lega.
Quindi, scarso impiego di tecnologia.
Il prof. Carlo Ratti, direttore del Senseable City Lab del MIT di Boston, invece, avrebbe preferito che i monitoraggi fossero stati continui e che si fossero basati su due semplici considerazioni:
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tutti gli smartphone posseggono gli accelerometri ovvero minidispositivi che misurano gli spostamenti in altezza, lunghezza e larghezza (per intenderci, quelli che consentono di portare lo schermo da verticale ad orizzontale e viceversa);
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su tutti gli smartphone può essere installata una app per trasmettere i dati rilevati dagli accelerometri.
Chissà se gli smartphone (o qualcosa di simile), adeguatamente inseriti in un sistema di rilevazione, sarebbero stati d’aiuto per un costante monitoraggio del ponte Morandi. Le migliaia di dati rilevati nel tempo ed opportunamente elaborati, avrebbero, probabilmente, segnalato eventuali anomalie.
Forse, per una volta, la sensibilità degli smartphone anziché accumulare dati personali avrebbe potuto salvare molte vite umane.