La pulce virtuale

Il Decreto Legislativo 216/2017 ha inserito nel codice di procedura penale la possibilità di impiegare un captatore elettronico all’interno di un dispositivo digitale portatile (cioè di uno smartphone o di un tablet). Lo stesso Decreto Legislativo ha stabilito che il captatore è sempre consentito per reati molto gravi come l’associazione mafiosa.

Il captatore può anche non essere la classica pulce che veniva (e viene) piazzata da Polizia o Carabinieri (su autorizzazione del magistrato) negli ambienti nell’ambito dei quali si suppone possano essere raccolte notizie sui reati che si cerca di perseguire. Le classiche pulci devono essere dotate di un microfono e di un trasmettitore e, normalmente, hanno una vita limitata perché l’energia che consumano per registrare e per trasmettere è fornita da una batteria che non dura all’infinito.

Oggi, tutto è molto più semplice ma anche più pericoloso per la privacy. Ognuno di noi possiede uno smartphone dotato di microfono, di sistema di trasmissione e di batteria che abbiamo cura di ricaricare con solerzia. Quindi, il captatore può essere semplicemente un software, una app in incognito, che registra e trasmette agli organi di polizia giudiziaria. Purtroppo, questa praticità può portare ad errori come quello che sembra essere emerso in questi giorni: un software captatore commissionato ed utilizzato dagli organi di polizia è stato, per errore, messo su Google Store e scaricato, sempre per errore, da un migliaio di inconsapevoli utenti che, a quanto pare, sono stati spiati a loro insaputa.

Sembra che sulla vicenda stia indagando la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Ma, il danno è fatto. Forse occorre disciplinare meglio questi aspetti perché la pulce virtuale, per sua natura, può infestare più facilmente della pulce classica.

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Gonfia la ciambella, ogni tanto

Il 30% delle persone che utilizza dispositivi elettronici per la memorizzazione dei propri dati non ha mai eseguito un salvataggio.

Ogni minuto vengono persi, nel mondo, 113 telefoni pieni di indirizzi, numeri di telefono, fotografie, filmati, ecc.

Il 29% delle perdite di dati è generato da causa accidentali.

Ogni mese, nel mondo, 1 computer su 10 è infettato da virus che possono causare la perdita di dati.

Questi elementi possono essere sufficienti per sensibilizzare chiunque ad effettuare periodicamente un backup dei propri dati. Possiamo anche aggiungere che, spesso, crediamo che i nostri dati siano al sicuro (da un’eventuale perdita) presso i social network o i servizi cloud che gli OTT mettono a disposizione gratuitamente. Invece, è proprio la gratuità del servizio che deve insospettirci: di solito chi fornisce servizi gratuiti non investe molto nella sicurezza e, quindi, può sempre essere possibile un errore umano o un guasto che mettono a repentaglio i dati dei fruitori.

Ma cos’è un backup? È la copia dei propri dati su un supporto di memorizzazione sicuro che, normalmente, deve essere conservato separatamente dal supporto di memorizzazione principale. Una volta, un supporto di memorizzazione sicuro era considerato il nastro magnetico. Oggi non si usa più e possono essere considerati sicuri i dischi ottici e i dischi magnetici portatili che, tuttavia, periodicamente devono essere verificati nella loro piena funzionalità.

Il prossimo 31 marzo è la Giornata Mondiale del Backup che ci invita, il giorno prima del 1° aprile, ad evitare brutti scherzi e, ogni tanto, a gonfiare la ciambella di salvataggio: per non trovarsi in un mare di guai.

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