
Il Decreto Legislativo 216/2017 ha inserito nel codice di procedura penale la possibilità di impiegare un captatore elettronico all’interno di un dispositivo digitale portatile (cioè di uno smartphone o di un tablet). Lo stesso Decreto Legislativo ha stabilito che il captatore è sempre consentito per reati molto gravi come l’associazione mafiosa.
Il captatore può anche non essere la classica pulce che veniva (e viene) piazzata da Polizia o Carabinieri (su autorizzazione del magistrato) negli ambienti nell’ambito dei quali si suppone possano essere raccolte notizie sui reati che si cerca di perseguire. Le classiche pulci devono essere dotate di un microfono e di un trasmettitore e, normalmente, hanno una vita limitata perché l’energia che consumano per registrare e per trasmettere è fornita da una batteria che non dura all’infinito.
Oggi, tutto è molto più semplice ma anche più pericoloso per la privacy. Ognuno di noi possiede uno smartphone dotato di microfono, di sistema di trasmissione e di batteria che abbiamo cura di ricaricare con solerzia. Quindi, il captatore può essere semplicemente un software, una app in incognito, che registra e trasmette agli organi di polizia giudiziaria. Purtroppo, questa praticità può portare ad errori come quello che sembra essere emerso in questi giorni: un software captatore commissionato ed utilizzato dagli organi di polizia è stato, per errore, messo su Google Store e scaricato, sempre per errore, da un migliaio di inconsapevoli utenti che, a quanto pare, sono stati spiati a loro insaputa.
Sembra che sulla vicenda stia indagando la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Ma, il danno è fatto. Forse occorre disciplinare meglio questi aspetti perché la pulce virtuale, per sua natura, può infestare più facilmente della pulce classica.