La recluta

Abbiamo discusso più volte dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alle procedure di assunzione del personale. Stupisce ogni volta, quindi, la disinvoltura con la quale importanti multinazionali pubblicizzano, anche su noti organi di stampa italiani, l’uso di software che possono “identificare le soft skills” dei candidati e “riconoscere i modelli positivi e negativi per la richiesta e segnala con che probabilità il candidato appartiene all’uno o all’altro”.

Fin qui il virgolettato del direttore marketing di una multinazionale del settore. Nell’articolo di stampa, apparso qualche giorno fa, queste dichiarazioni erano corredate dal dettaglio dei dati in input al programma di intelligenza artificiale creato dall’azienda: dati del curriculum vitae, commenti sui social, posture nei video.

Prima di pubblicizzare questi servizi, qualcuno dovrebbe ricordare due aspetti:

  • l’opinion n. 2/2017 del WP29 (oggi Comitato Europeo per la Protezione dei Dati) afferma testualmente, al punto 5.1, che “i datori di lavoro non devono credere che semplicemente perché un individuo ha reso pubblico il suo profilo tramite un social network essi siano autorizzati a trattare i dati che vi sono contenuti. C’è bisogno di una base giuridica che, per esempio, può essere il legittimo interesse (Ndr. punto f , par.  1 art. 6 del GDPR). In questo contesto, il datore di lavoro – prima di ispezionare il profilo social – deve prendere in considerazione se il profilo stesso è legato al business o se ha scopi privati, poiché questo può essere un importante indicatore per la liceità del trattamento”;
  • l’art. 111‑bis del nuovo Codice privacy permette il trattamento dei curricula spontanei senza il consenso del candidato; tuttavia, questo non è un lasciapassare per qualsiasi trattamento perché l’ultimo periodo dell’articolo dice testualmente “Nei limiti delle finalità di cui all’articolo 6, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento, il consenso al trattamento dei dati personali presenti nei curricula non è dovuto”; quindi, il trattamento è consentito solo per finalizzarlo all’instaurazione del contratto di lavoro e non per fare valutazioni su caratteristiche soft dell’interessato.

Non vorremmo constatare che le reclute di oggi possano essere trattate peggio delle reclute di qualche secolo fa.

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Il pettegolezzo digitale

Si stanno diffondendo in Italia, in maniera un po’ artigianale e disordinata, i gruppi di controllo del vicinato. L’associazione capofila è l’ACDV (Associazione Controllo del Vicinato) che, per la verità, appare un po’ vaga nella disciplina delle proprie attività ancorché aderente alla più strutturata EUNWA (European Neighbourhood Watch Association).

Lo scopo dei gruppi di controllo del vicinato è quello di fornire segnalazioni qualificate alle forze di polizia per il contrasto ai reati più comuni: furti, scippi, rapine, ecc. Il protocollo sembra essere quello che qualsiasi cittadino dovrebbe seguire: segnalare alle forze di polizia eventuali elementi di sospetto rispetto a fatti illeciti che stanno per compiersi.

Il problema nasce quando, dopo la segnalazione, questi gruppi di controllo del vicinato effettuano foto o video catturando, quindi, dati personali di altri soggetti e, magari, pubblicandoli su social network o siti web. Qual è la base giuridica di questo trattamento? Certamente la nascita di queste iniziative ha radici positive ma non possiamo escludere che lo spontaneismo possa sfociare in una potenziale lesione dei diritti e delle libertà di chi viene fotografato o ripreso mentre, per esempio, sta scavalcando il cancello della casa dell’amico che gli ha chiesto un favore o di una coppia che litiga animatamente per strada.

Quindi, sebbene ampiamente giustificata da motivi di interesse pubblico bisogna domandarsi: si tratta di un sistema pervasivo di videosorveglianza potenzialmente incontrollata o di un coinvolgimento attivo al miglioramento della convivenza? In questo momento, osservando la normativa vigente, si dovrebbe propendere per la prima opzione.

L’evoluzione tecnologica ed il fatto che tutti siamo dotati di un smartphone, con annessa videocamera, deve portare il legislatore a sciogliere questi dubbi. Perlomeno per evitare di alimentare il pettegolezzo digitale piuttosto che la sicurezza del quartiere.

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