Prove atipiche

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17155/2019, ha giudicato inammissibile il ricorso di una dipendente che era stata processata e condannata, nei primi due gradi di giudizio, per furto aggravato e continuato ai danni del suo datore di lavoro.

La dipendente era stata condannata sulla base di filmati acquisiti da un sistema di videosorveglianza installato dal suo datore di lavoro presso la tabaccheria di proprietà.

L’avvocato della dipendente aveva fondato uno dei motivi del ricorso in Cassazione sulla inutilizzabilità delle prove video perché acquisite in violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che consente l’impiego di sistemi di controlla a distanza dei lavoratori solo in presenza di un accordo sindacale o di autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro e, comunque, nel rispetto del Codice Privacy. Nel caso specifico il sistema era stato installato, infatti, senza alcun accordo sindacale né era stata ottenuta alcuna autorizzazione.

I giudici della Cassazione hanno stabilito che l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è posto a tutela del lavoratore in quanto parte del rapporto di lavoro e, quindi, qualora ci fosse stata una causa civile nell’ambito della quale il datore di lavoro avesse voluto utilizzare i filmati contro il lavoratore, i filmati stessi non sarebbero risultati ammissibili. Viceversa, nell’ambito del processo penale, i giudici possono utilmente avvalersi dei filmati come prova atipica del reato, ai sensi dell’art. 189 del Codice di Procedura Penale, con il solo limite di non ledere la libertà morale della persona.

Quindi, reato tipico e prova atipica: una convivenza possibile se non si lede la dignità della persona.

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Quinto Stato

48 volte la parola dato, 29 volte la parola diritto, 24 volte la parola libertà, 18 volte la parola protezione (alla quale si aggiunge la parola tutela ben 17 volte). Questi sono i risultati più evidenti delle parole che il Presidente del Garante per la Protezione dei Dati Personali, Antonello Soro, ha ripetuto più frequentemente nel suo discorso di presentazione della Relazione sull’attività 2018 dell’Autorità che presiede.


Tuttavia, l’espressione che più mi ha colpito è stata “sottoproletariato digitale”. Il Garante si è voluto soffermare sui fenomeni di adesione ai servizi offerti apparentemente “a prezzo zero” che, tuttavia, generano una “servitù volontaria” (sempre parole di Soro) a danno di persone che, inconsapevolmente, cedono il flusso dei propri dati personali e, quindi, una parte importante della loro vita. Soro ha sottolineato anche l’esistenza dei fenomeni di lucro su lucro da parte di soggetti (le nuove banche dei dati) che promettono alle persone di riottenere i dati personali ceduti alle varie piattaforme e di rivenderli facendo guadagnare loro moneta virtuale (beato chi ci crede…).
Si sta formando, quindi, un “Quinto Stato” che difficilmente riuscirà a liberarsi dalla propria servitù perché non saprà più individuare chi è il padrone e, di conseguenza, contro chi protestare.

È su questi problemi che deve fondarsi il vero senso del GDPR e dell’attività del Garante: guai a depotenziarne la portata.

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