L’amaro polacco

Conosciamo bene l’amaro Lucano, l’amaro d’Abruzzo, l’amaro del Capo ma ancora non avevamo compreso come può essere l’amaro polacco.

Ci ha pensato il Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali della Polonia (UODO): ha fatto assaggiare ad un’azienda del suo Paese un calice amaro di circa 220.000 euro. Una sanzione dovuta al fatto che l’azienda non ha fornito agli interessati l’informativa sul trattamento prevista dal GDPR.

Si parla di circa sei milioni di persone dei quali l’azienda trattava dati personali estratti dall’omologo polacco del nostro Registro delle Imprese, noto registro pubblico. Nella motivazione del provvedimento l’UODO ha rilevato che:

  • il fatto che i dati siano resi pubblici per legge non autorizza chiunque a trattarli per fini non previsti dalla legge stessa; l’azienda, infatti, utilizzava i dati personali per motivi esclusivamente commerciali finalizzati a pubblicizzare i propri prodotti e servizi;
  • l’azienda ha mandato l’informativa solo agli interessati di cui possedeva l’indirizzo di posta elettronica; avrebbe dovuto provvedere a rendere nota l’informativa con mezzi alternativi, per esempio per posta o per telefono;
  • 12.000 soggetti, tra i 90.000 che hanno ricevuto l’informativa, hanno esercitato il diritto di opposizione; questo significa che, nel caso in cui l’informativa fosse stata fornita anche agli altri, molti di loro avrebbero potuto opporsi al trattamento o esercitare gli altri diritti; quindi, l’UODO ha rilevato una forte compressione nella possibilità di esercizio dei diritti previsti dal GDPR.

Un amaro polacco davvero forte.

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La pulce virtuale

Il Decreto Legislativo 216/2017 ha inserito nel codice di procedura penale la possibilità di impiegare un captatore elettronico all’interno di un dispositivo digitale portatile (cioè di uno smartphone o di un tablet). Lo stesso Decreto Legislativo ha stabilito che il captatore è sempre consentito per reati molto gravi come l’associazione mafiosa.

Il captatore può anche non essere la classica pulce che veniva (e viene) piazzata da Polizia o Carabinieri (su autorizzazione del magistrato) negli ambienti nell’ambito dei quali si suppone possano essere raccolte notizie sui reati che si cerca di perseguire. Le classiche pulci devono essere dotate di un microfono e di un trasmettitore e, normalmente, hanno una vita limitata perché l’energia che consumano per registrare e per trasmettere è fornita da una batteria che non dura all’infinito.

Oggi, tutto è molto più semplice ma anche più pericoloso per la privacy. Ognuno di noi possiede uno smartphone dotato di microfono, di sistema di trasmissione e di batteria che abbiamo cura di ricaricare con solerzia. Quindi, il captatore può essere semplicemente un software, una app in incognito, che registra e trasmette agli organi di polizia giudiziaria. Purtroppo, questa praticità può portare ad errori come quello che sembra essere emerso in questi giorni: un software captatore commissionato ed utilizzato dagli organi di polizia è stato, per errore, messo su Google Store e scaricato, sempre per errore, da un migliaio di inconsapevoli utenti che, a quanto pare, sono stati spiati a loro insaputa.

Sembra che sulla vicenda stia indagando la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli. Ma, il danno è fatto. Forse occorre disciplinare meglio questi aspetti perché la pulce virtuale, per sua natura, può infestare più facilmente della pulce classica.

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