Gonfia la ciambella, ogni tanto

Il 30% delle persone che utilizza dispositivi elettronici per la memorizzazione dei propri dati non ha mai eseguito un salvataggio.

Ogni minuto vengono persi, nel mondo, 113 telefoni pieni di indirizzi, numeri di telefono, fotografie, filmati, ecc.

Il 29% delle perdite di dati è generato da causa accidentali.

Ogni mese, nel mondo, 1 computer su 10 è infettato da virus che possono causare la perdita di dati.

Questi elementi possono essere sufficienti per sensibilizzare chiunque ad effettuare periodicamente un backup dei propri dati. Possiamo anche aggiungere che, spesso, crediamo che i nostri dati siano al sicuro (da un’eventuale perdita) presso i social network o i servizi cloud che gli OTT mettono a disposizione gratuitamente. Invece, è proprio la gratuità del servizio che deve insospettirci: di solito chi fornisce servizi gratuiti non investe molto nella sicurezza e, quindi, può sempre essere possibile un errore umano o un guasto che mettono a repentaglio i dati dei fruitori.

Ma cos’è un backup? È la copia dei propri dati su un supporto di memorizzazione sicuro che, normalmente, deve essere conservato separatamente dal supporto di memorizzazione principale. Una volta, un supporto di memorizzazione sicuro era considerato il nastro magnetico. Oggi non si usa più e possono essere considerati sicuri i dischi ottici e i dischi magnetici portatili che, tuttavia, periodicamente devono essere verificati nella loro piena funzionalità.

Il prossimo 31 marzo è la Giornata Mondiale del Backup che ci invita, il giorno prima del 1° aprile, ad evitare brutti scherzi e, ogni tanto, a gonfiare la ciambella di salvataggio: per non trovarsi in un mare di guai.

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La recluta

Abbiamo discusso più volte dell’applicazione dell’intelligenza artificiale alle procedure di assunzione del personale. Stupisce ogni volta, quindi, la disinvoltura con la quale importanti multinazionali pubblicizzano, anche su noti organi di stampa italiani, l’uso di software che possono “identificare le soft skills” dei candidati e “riconoscere i modelli positivi e negativi per la richiesta e segnala con che probabilità il candidato appartiene all’uno o all’altro”.

Fin qui il virgolettato del direttore marketing di una multinazionale del settore. Nell’articolo di stampa, apparso qualche giorno fa, queste dichiarazioni erano corredate dal dettaglio dei dati in input al programma di intelligenza artificiale creato dall’azienda: dati del curriculum vitae, commenti sui social, posture nei video.

Prima di pubblicizzare questi servizi, qualcuno dovrebbe ricordare due aspetti:

  • l’opinion n. 2/2017 del WP29 (oggi Comitato Europeo per la Protezione dei Dati) afferma testualmente, al punto 5.1, che “i datori di lavoro non devono credere che semplicemente perché un individuo ha reso pubblico il suo profilo tramite un social network essi siano autorizzati a trattare i dati che vi sono contenuti. C’è bisogno di una base giuridica che, per esempio, può essere il legittimo interesse (Ndr. punto f , par.  1 art. 6 del GDPR). In questo contesto, il datore di lavoro – prima di ispezionare il profilo social – deve prendere in considerazione se il profilo stesso è legato al business o se ha scopi privati, poiché questo può essere un importante indicatore per la liceità del trattamento”;
  • l’art. 111‑bis del nuovo Codice privacy permette il trattamento dei curricula spontanei senza il consenso del candidato; tuttavia, questo non è un lasciapassare per qualsiasi trattamento perché l’ultimo periodo dell’articolo dice testualmente “Nei limiti delle finalità di cui all’articolo 6, paragrafo 1, lettera b), del Regolamento, il consenso al trattamento dei dati personali presenti nei curricula non è dovuto”; quindi, il trattamento è consentito solo per finalizzarlo all’instaurazione del contratto di lavoro e non per fare valutazioni su caratteristiche soft dell’interessato.

Non vorremmo constatare che le reclute di oggi possano essere trattate peggio delle reclute di qualche secolo fa.

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