Che razza di ricerca!

Nei giorni scorsi ha fatto notizia la circostanza che una ASL veneta ha inviato ad una scuola un questionario per una “valutazione neuropsichiatrica” della popolazione di studenti nel quale era presente il campo “razza”.
È opportuno inquadrare in maniera corretta la vicenda cominciando dalla raccolta informativa della ASL e, poi, procedendo alla valutazione della correttezza del trattamento dell’informazione relativa alla razza.
Il questionario, probabilmente, costituiva il primo passo di un’attività di ricerca scientifica che la ASL voleva condurre. Questo tipo di attività è regolata dal Capo III del Titolo VII del nuovo Codice Privacy che, di fatto, rimanda alle Regole deontologiche per trattamenti a fini statistici o di ricerca scientifica appena pubblicate in Gazzetta Ufficiale.
L’articolo 2 delle Regole deontologiche specifica che il progetto di ricerca deve rispettare specifiche indicazioni e contenere l’impegno a rispettare le predette Regole.
L’articolo 7 delle stesse Regole prevede, invece, che le particolari categorie di dati personali (nell’ambito delle quali rientrano l’origine razziale o etnica) devono essere trattate, di regola, in forma anonima e che, diversamente, l’interessato (o chi per lui nel caso degli studenti minori) debba esprimere il proprio consenso.
Ci auguriamo, quindi, che questa ricerca, a prescindere dallo scalpore giornalistico, abbia rispettato i canoni di base previsti dalla normativa.

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Lo scorso 1 febbraio la sezione lavoro della Corte di Cassazione ha depositato la sentenza 3133/2019 che è stata puntualmente ripresa da quotidiani e telegiornali perché ha confermato il licenziamento di una dipendente di uno studio medico per abuso di Facebook sul posto di lavoro.

Lo scalpore è stato generato dal supposto mancato rispetto della privacy da parte del datore di lavoro che ha potuto utilizzare in giudizio i circa 4.500 accessi a Facebook effettuati dalla sua dipendente con il personal computer dello studio. La sentenza non è stata ancora pubblicata sul sito della Cassazione e, quindi, aspettiamo di leggerla prima di commentarla.

Per il momento, solo due riflessioni:

  • sembra che la Cassazione abbia respinto le doglianze della dipendente connesse al rispetto della normativa sulla privacy; lo ha fatto, tuttavia, senza entrare nel merito cioè dicendo semplicemente che queste doglianze non erano state prospettate nei primi due gradi di giudizio;
  • per poter utilizzare i dati riferiti alla navigazione su Internet, il datore di lavoro, finora, doveva rendere note ai dipendenti le regole di utilizzo dei dispositivi elettronici (compresi i siti da non consultare) e le modalità con le quali avrebbe effettuato il controllo del rispetto delle predette regole; senza questi due presupposti, il datore di lavoro non poteva impiegare i dati riferiti all’utilizzo dei dispositivi elettronici aziendali.
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