Il pedale dell’uomo morto

Non tutti siamo esperti di meccanismi di sicurezza ma il pedale dell’uomo morto è uno di quelli che ha salvato la vita a molte persone, forse anche a noi senza rendercene conto. È un pedale installato, in passato, su tutti i locomotori dei treni italiani e doveva essere premuto dal macchinista per segnalare il suo stato di benessere fisico; se il macchinista non lo schiacciava, voleva significare che poteva essersi addormentato o aver avuto un malore ed il treno si bloccava. È stato un meccanismo utile per tanto tempo ma, successivamente, è stato vietato dalle ASL perché il lavoratore/macchinista era continuamente esposto ad un gesto ripetitivo (la pressione del pedale) che poteva condurlo ad una forma di stress cosiddetto lavoro‑correlato.

Il pedale dell’uomo morto è stato, quindi, sostituito da meccanismi che segnalavano lo stato di attenzione del macchinista ad una sua qualsiasi azione sui meccanismi di controllo del locomotore (freno, comunicazione con la stazione, impianto di condizionamento, ecc.).

La tecnologia, di recente, ha fatto ancora meglio. A partire dal 2019 saranno installati sui locomotori di Trenitalia apposite telecamere che cattureranno le immagini degli occhi del macchinista e ne valuteranno i battiti di ciglia: deve esserci un battito di ciglia ogni dieci secondi nell’arco di un minuto, altrimenti il treno emette un fischio e, successivamente, si ferma. Allo scadere del minuto, se tutto è regolare, il contatore si azzera e ricomincia il conteggio. Ancorché sia ripresa una parte fisica del macchinista con strumenti tecnologici avanzati, i dati trattati non sono dati biometrici perché l’informazione catturata riguarda solo il movimento delle ciglia e non qualcosa che può essere utile all’identificazione della persona (p.e. l’iride).

Quindi, niente valutazione d’impatto sulla protezione dei dati personali e solo il sollievo di tutti i macchinisti d’Italia.

Condividi

A pensar male

Jessica Powell è una donna di quarant’anni che ha conosciuto da vicino le dinamiche delle disruption company ovvero di quelle aziende che, facendo leva sugli sviluppi tecnologici, si sono imposte sul mercato generando miliardi per i fondatori ma, a suo dire, al prezzo di qualche scompenso psicologico che, poi, si è riverberato nella stessa gestione aziendale. La sua ultima esperienza professionale l’ha avuta con Google di cui è stata vicepresidente con la responsabilità per la comunicazione aziendale e per i rapporti istituzionali.

Uscita da Google, ha pensato di scrivere un romanzo (leggibile gratuitamente) per ironizzare su alcuni aspetti comportamentali assunti dai vertici aziendali e da molti dipendenti degli OTT. Il suo bersaglio più frequente è stato il delirio di onnipotenza di cui molti di loro soffrivano (e soffrono). Tuttavia, alcuni aneddoti raccontano anche storie minori legate alla disinvoltura con la quale molti dipendenti affrontano i problemi di privacy degli utenti.

Per esempio, ad un certo punto del romanzo si legge “Da quanto tempo non vendiamo i dati degli utenti o non violiamo il diritto d’autore? Quelli si che erano anni d’oro!!!”

In un altro passaggio, invece, uno dei protagonisti dice “E qual è il problema? Introduciamo tutti gli utenti al nuovo servizio e rendiamo difficile il reperimento delle impostazioni di privacy!”

Tutto questo lascia pensare che, forse, aveva ragione chi diceva “A pensar male si fa peccato ma si azzecca quasi sempre”.

Condividi